Ci
sono ambiti in cui i governi sono capaci di stipulare accordi, non
solo vincolanti, ma addirittura dotati di capacità sanzionatoria,
pur di farli rispettare. E’ il caso dei trattati commerciali posti
sotto tutela dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Chi non li
rispetta può essere portato a giudizio e sottoposto a rappresaglie
economiche finché non si sia adeguato ai dettami dei trattati
firmati. Non così per la questione climatica regolata dall’accordo
siglato a Parigi nel dicembre 2015. Al di là dei toni
trionfalistici, quell’accordo è poco più di un elenco di cose che
gli stati dovrebbero fare per tamponare la situazione. Quanto alla
loro realizzazione non c’è niente di certo perché ogni stato ha
piena libertà di stabilire obiettivi, tempi e strategie. E’ la
classica politica dei due pesi e due misure: regole vincolanti, o
hard
law,
per la vita delle imprese; regole volontarie o soft
law,
per la vita delle persone.
Senza
impegni precisi e senza denti per mordere, l’accordo di Parigi si
regge sulla fiducia alimentata tramite incontri che i paesi firmatari
programmano periodicamente per fare il punto della situazione,
ridefinire le urgenze, discutere sui nuovi passi da compiere e
strategie da seguire. Il primo incontro si è tenuto a Marrakesh nel
novembre 2016 ed ora si ripete a Bonn sotto la sigla di COP23. E
proprio in vista di quest’ultimo appuntamento, il Programma
sull’ambiente delle Nazioni Unite, ha pubblicato un nuovo rapporto,
dal titolo emblematico The
emissions gap report 2017,
in cui segnala che complessivamente l’umanità non ha ancora
imboccato la strada della riduzione delle emissioni di gas serra.
Seppur a ritmi inferiori rispetto agli anni precedenti, nel 2014,
2015 e 2016, i gas serra hanno continuato a crescere rispettivamente
dello 0,9, 0,2 e 0,5%. Il rapporto segnala anche che gli impegni di
riduzione assunti dai paesi aderenti all’accordo, coprono solo un
terzo delle riduzioni necessarie per impedire alla temperatura
terrestre di salire oltre i due gradi centigradi. E a complicare la
situazione c’è l’enigma Trump. L’amministrazione Obama oltre
ad avere aderito all’accordo, si era impegnata a ridurre le
emissioni di gas serra, entro il 2025, del 26-28% rispetto a quelle
emesse nel 2005. Ora Trump minaccia di ritirarsi dall’accordo con
effetto immediato, seppure una clausola gli proibisca di farlo prima
del 2020. Intanto conviene ricordare che dei 197 paesi che nel 1994
sottoscrissero la prima Convenzione ONU sul clima, ben 20 non hanno
ancora ratificato l’accordo di Parigi. Fra essi: Colombia, Iran,
Iraq, Russia, Turchia, e numerose nazioni africane.
Inizialmente
l’incontro di Bonn si doveva tenere nelle Isole Fiji, non un paese
qualsiasi ma ad alto significato simbolico dal momento che è uno dei
territori del Pacifico a rischio di finire sott’acqua a causa del
surriscaldamento del pianeta. Poi le difficoltà logistiche hanno
consigliato di svolgere l’incontro altrove, ma la presidenza è
rimasta a Frank Bainimarama primo ministro delle Isole Fiji che
intende orientare la discussione su due grandi temi. Il primo: la
necessità di fare di più e più in fretta perché gli effetti dei
cambiamenti climatici sono già fra noi. E non ce lo ricordano solo
Harvey, Irma, Maria, Jose, Katia, e tutti gli altri uragani
battezzati con i nomi più stravaganti che da un capo all’altro del
mondo hanno seminato morte e terrore tramite allagamenti. Ce lo
ricordano anche le carestie per siccità che continuano a condannare
milioni di persone alla fame soprattutto nell’Africa orientale. Ed
è proprio il fatto che i cambiamenti climatici producono i loro
effetti ovunque e mettano in maggiore difficoltà soprattutto i più
poveri, a rendere ragione dell’altro grande tema su cui il
presidente Bainimarama intende mantenere la discussione. Il tema è
previsto dall’Accordo di Parigi e si chiama solidarietà per la
riparazione dei danni, per gli interventi di adattamento, per la
transizione verso le energie rinnovabili. A Bonn e negli incontri che
seguiranno, si discuterà ancora a lungo su questo tema perché i
soldi sono sempre un tema sensibile. Per di più i paesi più ricchi
vogliono evitare di infilarsi in una situazione attraverso la quale
riconoscono, implicitamente, di ritenersi responsabili dei danni
provocati. Ma se esaminiamo chi ha prodotto il problema negli ultimi
cento anni, è difficile dare la colpa ai paesi più poveri. La
stessa Cina che dal 1990 al 2011 ha contribuito al 16% di tutti i gas
serra prodotti nel periodo, prima di allora aveva un ruolo non
comparabile con Europa, Stati Uniti e Russia.
Già
nel dicembre 2009, a Copenhagen, venne proposto di destinare 100
miliardi l’anno ai paesi più poveri per fare fronte ai cambiamenti
climatici. Ma quale sia il denaro realmente raccolto e utilizzato a
questo scopo nessuno riesce a dirlo, perché molti paesi mescolano
tutto nel capitolo più generale della cooperazione internazionale.
Si può solo dire che fino ad oggi il fondo appositamente costituito,
il Green
Climate Fund,
ha approvato 54 progetti ed elargito finanziamenti per 131 milioni di
dollari. Troppo pochi per impedire che altri innocenti continuino a
pagare per la nostra opulenza.
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