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Cordoglio per la prematura scomparsa di Alfredo Viloria

Cordoglio per la prematura scomparsa di Alfredo Viloria. Nel tardo pomeriggio di martedì 29 Dicembre si è diffusa la terribile notizia della...

mercoledì 18 ottobre 2017

Il Continente Americano. L'America Latina. Presentazione a San Giuliano Terme Venerdì 20 Ottobre ore 17.30 presso il Circolo Arci

 Presso 
Il Circolo Arci Comunale
in Largo Percy Shelley
a

San Giuliano Terme

VENERDI 20 OTTOBRE
 ORE 17.30
presentazione della pubblicazione
"Il continente americano. L'America Latina"
incontro con
Andrea Vento
docente di Geografia economica all'Itc Pacinotti di Pisa - Coordinamento del Giga
e
con l'eccezionale partecipazione di 
 Alfredo Viloria

Ex Primo Segretario dell'ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Roma
Dirigente del Psuv
e con intervento del 
Collettivo Abya Yala
"La resistenza dei Mapuche in Argentina. La sparizione di Santiago Maldonado"


A seguire apericena al costo di 5 euro.
Si invita a comunicare la propria presenza all'apericena per agevolare l'organizzazione da parte del circolo

martedì 10 ottobre 2017

Blanca e Pedro. Report di una esperienza di Apprendimento differenziato nella Scuola Secondaria di primo grado (classe terza B della scuola media di Crespina, IC Mariti Fauglia).



Introduzione.
Settembre. Accade che inizia la scuola e che ritrovi i tuoi ragazzi dell’anno passato: cresciuti, abbronzati, capelli selvaggi, voce mutata, insomma, cambiati. Sono ragazzi di terza media. Accade anche che con la collega di Lettere della classe parallela si decida di dedicare i primi mesi di scuola per lavorare sull’adolescenza e contemporaneamente attivare dei percorsi di orientamento di conoscenza di sé, finalizzati anche alla scelta della scuola superiore.

Le fasi dell’attività.
Così si parte. Nelle ore di italiano si legge e si scrive. Ma non solo…
La prima fase del lavoro riguarda la lettura di un racconto proposto dall’Antologia Raccontami vol 3 editrice Lattes. Si tratta di “Blanca e Pedro”, un brano tratto dal bellissimo romanzo di Isabella Allende, La casa degli spiriti. Parla di due ragazzini di 13 anni, dei corpi che cambiano, dell’amicizia, dell’amore. Tematiche universali e che al contempo riguardano da vicino i nostri studenti di questa delicata fascia d’età1. Un classico, secondo quella definizione che vede in un libro “classico” un libro che ogni volta che lo leggi ti propone qualcosa di nuovo.
Si parte dalla lettura in classe, insieme ai ragazzi, per ragionare insieme sulle tematiche affrontate, sull’ambientazione, sulla struttura narrativa. Ma dopo un primo momento di lezione frontale ecco innescarsi l’attività di apprendimento differenziato2.
Vengono così concordate con i ragazzi tre tipologie di attività da svolgere in gruppo (cooperative learning), che potranno scegliere liberamente (e la scelta ha di per sé valore orientante ed è importante poiché consente agli studenti di intessere un dialogo interiore con se stessi) secondo i loro interessi e attitudini. Si tratta di compiti sfidanti e ambiziosi che vogliono far attivare i ragazzi al fine di ottenere degli apprendimenti significativi.
  1. Attività di Geografia sul Cile (lo stato in cui è ambientato il racconto, partendo da due parole-chiave di lessico specifico citate nel racconto: vulcano e Cordigliera)
  2. Attività di Storia sulla storia del Cile dal 1920 al 1973 ( periodo in cui è ambientata la storia. Isabella Allende era la nipote del presidente del Cile Salvador Allende)
  3. Attività di illustrazione del racconto (tecnica libera)
Una volta che i ragazzi hanno effettuato la loro scelta si sono costituiti 5 gruppi di lavoro: due gruppi di geografia, due di disegno e uno di storia che si sono riuniti nei tavoli link disposti ad isole per progettare il lavoro e dividersi i compiti.
A questo punto nell’ incontro successivo i ragazzi hanno cominciato a lavorare, concordando con l’insegnante il prodotto finale da presentare:
  1. Ricerca sul Cile scritta al computer in Word corredata da immagini e presentazione orale
  2. Presentazione in Power Point sul Cile con presentazione orale
  3. Ricerca di storia da esporre oralmente
  4. Disegni colorati a matita e ad acquarello da spiegare oralmente
  5. Disegni colorati a matita da spiegare oralmente
Come si può notare i prodotti sono di diversa tipologia e prevedono l’utilizzo di differenti materiali e di molteplici strumenti, nonché lo sviluppo di diverse competenze (il quadro di riferimento è quello delle competenze chiave europee).
I gruppi hanno avuto a disposizione i computer portatili della scuola (con accesso ad internet), il tablet dell’insegnante e un paio di ragazzi hanno chiesto di utilizzare il loro smart phone che è stato concesso esclusivamente per fini didattici. Hanno inoltre utilizzato i colori e gli acquerelli della scuola e le carte geografiche appese in classe, e potuto consultare svariati libri di testo di storia e geografia presenti nella biblioteca in sala insegnanti.
Sono state impiegate 4 ore per lavorare in classe, concordando una settimana di tempo per concludere i lavori a casa.
Durante il lavoro in classe ho potuto sia lasciare spazio ai ragazzi per lavorare in autonomia (l’ insegnante rimane sullo sfondo come la carta da parati/insegnante-ombra), sia avvicinarmi a turno ai tavoli per discutere con i gruppi le scelte effettuate e ove necessario intervenire per aggiustare la rotta (sempre in maniera poco invasiva e discreta). Così facendo l’alunno impara in modo graduale a far da solo, parlare sottovoce per non disturbare i compagni che lavorano, richiedere la presenza dell’ insegnante in determinati momenti, cooperare con i compagni mettendo a disposizione le proprie competenze per il raggiungimento di un medesimo fine ( questo è il caso ad esempio dei ragazzi molto bravi ad utilizzare il computer) e ad appassionarsi allo studio in quanto scoperta che esso costituisce momento fondamentale per la sua crescita. Inoltre in questo modo si possono raccogliere dati per la valutazione non soltanto del prodotto, ma anche del processo che ha portato a quel prodotto, (aspetto questo altrettanto importante) ma soprattutto si può dedicare del tempo di qualità a ciascuno rispondendo ai suoi specifici bisogni cognitivi e affettivi. Così un ragazzo mi ha chiesto che differenza vi fosse tra America meridionale e America Latina (cosa che ho molto apprezzato, perché non ci sono solo risposte corrette, ma anche la giusta domanda al momento opportuno denota che siamo sulla strada giusta), due studentesse hanno avuto bisogno di riflettere con me sul presidente Allende e il golpe dell’11 settembre 1973, su Pinochet e le atrocità della sua dittatura, un’altra alunna ha disegnato una testa di cavallo –simbolo della libertà, mi ha spiegato- perché in tutto il racconto questa tematica è molto forte ( come la libertà di amare una persona di un differente ceto sociale). Abbiamo così avuto modo di lavorare insieme alla costruzione di significati condivisi su nodi concettuali di grande rilievo.

La consegna e la presentazione del lavori.
Nell’incontro finale i gruppi hanno presentato i lavori ai compagni e all’insegnante esponendo contenuti, modalità operative e di gestione, problemi sorti e come sono stati superati. Tutti i ragazzi di tutti i gruppi hanno avuto modo di parlare e di rispondere alle domande di insegnante e compagni. Hanno riflettuto sulla storia di Blanca e Pedro e sui contenuti da essa vincolati, sui loro gusti ed attitudini e su ciò che li accomunava –e differenziava- dai protagonisti del racconto. Si sono presentati tutti motivati e carichi di entusiasmo.
Al termine dei lavori è stato chiesto ai ragazzi di scrivere un breve report dell’attività per il sito della scuola (compito autentico).
Per la valutazione dei lavori è stata utilizzata una rubrica di valutazione che ha tenuto conto delle molteplici competenze messe in gioco (valutando elaborati, prestazione orale e report scritto finale) ed è stato dedicato ampio spazio alla autovalutazione dei ragazzi per una riflessione metacognitiva e dal valore orientante.

Conclusioni
Adottare l’approccio pedagogico dell’apprendimento differenziato significa prima di tutto riconoscere come valore culturale primario la valorizzazione delle diversità degli studenti. Inoltre, come sottolinea Maurizio Gentile in un utilissimo articolo del 2008 “Differenziare l’apprendimento nel contesto della classe”, la finalità principale di questo approccio non è il recupero del deficit, bensì far lavorare ciascuno al livello più alto delle sue possibilità di espressione, pensiero e produzione.
Ringraziamenti

Si ringraziano per i suggerimenti e lo scambio di buone pratiche i colleghi Raffaela Micillo, Cosimo Acquaviva e Lorenzo Brogi.

Riferimenti bibliografici:
Avanguardie Educative, Linee guida per l’ implementazione dell’ idea “ Apprendimento differenziato”, versione 1.0, Indire, Firenze, 2017 ( reperibili on line; c’è anche un video dallo stesso titolo su Youtube molto chiaro)
Maurizio Gentile, Differenziare l’apprendimento nel contesto della classe, L’ Educatore, 55 (11), pp 44-47 (reperibile on line in formato pdf)
Marco Orsi, A scuola Senza Zaino, Erickson 2016
Carol Ann Tomlinson, Condurre e gestire una classe eterogenea, Las Roma, 2012

Serena Campani
Lavoria, 10 Ottobre 2017.






1 Importantissimo è il fattore motivazionale; una didattica differenziata ha tra i suoi obiettivi primari quello di creare un legame forte tra i contenuti di apprendimento e gli interessi degli studenti ( si vedano le linee guida Avanguardie Educative per l’ implementazione dell’idea Apprendimento differenziato, 2017)

2 Apprendimento differenziato si fonda sulla capacità di diversificare le attività didattiche favorendo il successo di ogni singolo studente e sul fatto che l’azione formativa debba essere organizzata mettendo in luce le specificità del singolo alunno. ( Si vedano le sopracitate linee guida)

venerdì 6 ottobre 2017

Venerdì 6 Ottobre ore 17.30 presso il Circolo Agorà a Pisa: Presentazione del lavoro del Prof. Andrea Vento del Giga "Il continente americano. L'America Latina". Edizione aggiornata nell'analisi economica con i nuovi dati diffusi dalla Cepal. Uno work in progress che segue gli sviluppi economici, sociali e geopolitici. Non mancate!!!




Perchè odiamo la natura. Di Max Strata

Oggi pubblichiamo un bel saggio dell'ecologo Max Strata, una riflessione profonda sulla grave crisi ecologica che sta investendo il nostro pianeta.


L'essere umano odia la Natura ?
E' una domanda che è legittimo porsi considerando la grave crisi ecologica planetaria
che investe questo periodo storico e che non ha precedenti, in quanto provocata
dall'azione della nostra specie.
Prima di tutto, vediamo alcune definizioni del termine Natura come contenute in
quattro dizionari della lingua italiana.
- L'insieme degli esseri viventi e delle cose inanimate che costituiscono l'universo e
in particolare il mondo terrestre, come entità retta da un ordine proprio e governata
da leggi costanti, che l'uomo può conoscere ma non modificare .
- Il fondamento dell'esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire
biologico, in quanto presupposto causativo, principio operante, o realtà fenomenica
(la natura, madre di tutte le cose e operatrice).
- Il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate, che
presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi.
- Il complesso delle cose e degli esseri dell’universo, in quanto si ritiene che abbiano
in sé un principio costitutivo che ne stabilisce l’ordine e le leggi.
Si tratta di definizioni non univoche ma dalle quali emergono con chiarezza i termini
e i concetti di ordine, leggi, principi, in modo del tutto simile a quanto avviene per i
principali dizionari, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, ecc..

Si riconosce dunque che quando si parla di Natura si ha a che fare con qualcosa di
sovraordinato, di immanente, di precostituito, con qualcosa che ci precede e che ci
seguirà, che ci irretisce in dinamiche dalle quali non si può prescindere.
Dato questo presupposto, risulta significativa la circostanza per cui l'idea di una
Natura associata a Dio o di una Natura comunque oggetto di contemplazione
spirituale, appare, quando appare, solo nelle note che seguono la definizione
principale, finendo spesso per essere relegata in un paragrafo dedicato alla teologia.
E' chiaro che il significato delle parole si aggiorna con il mutare dei tempi e nel
nostro caso, ciò che emerge è che nella cultura del mondo occidentale contemporaneo
la concezione della Natura assume la connotazione di un sistema complesso e
autoregolato ma svincolato da ogni concezione non strettamente materialistica.
Se le parole hanno un senso e se per l'appunto è "il verbo" che ci permette di
concepire il divenire delle cose del mondo, allora è chiaro che questa espulsione
dell'idea di Natura come un'ampia epifania di fenomeni che può essere ricondotta
anche alla dimensione spirituale che ha percorso la storia dell'umanità, ha un
significato ben preciso.
Ne consegue infatti che se la Natura non ha affinità con il mondo spirituale e di
conseguenza con il sacro, questa rientra esclusivamente in una sfera fisica con cui la
specie umana può avere un rapporto non mediato, non subordinato, in cui la nostra
azione tesa a "intaccare" o meglio a "infrangere" le leggi che la regolano, non solo
risulta possibile ma addirittura auspicabile.
E' questa la grande novità che compare con l'Età dei Lumi, con la rivoluzione
industriale e con il successivo processo di evoluzione tecnico scientifica che oggi
contraddistingue il nostro agire.
---
In un importante articolo apparso molti anni fa sul quotidiano La Stampa, Primo
Levi, non solo insuperabile narratore delle orribili vicende di Auschwitz ma anche
straordinario autore avveniristico (si ricordino le sue raccolte di short-stories, Storie
Naturali e Vizio di Forma), scrisse con molta chiarezza che la nostra specie aveva
puntato tutto sulla sopravvivenza individuale, relegando la Natura a palcoscenico
della nostra esistenza.
Niente di più vero se consideriamo che gli strumenti offerti dal progresso scientifico e
tecnologico hanno concesso ad una parte dell'umanità di vivere, o quanto meno di
provare a vivere, "al di sopra" delle leggi naturali.
Il confronto con tali leggi è sempre stato aperto e praticamente in ogni cultura
compare nei miti dell'antichità, tuttavia è nella tradizione occidentale qui intesa in
senso ampio come quella veicolata dalla cultura pagana greco-romana e soprattutto
dalle tre religioni abramitiche, che tale confronto si manifesta apertamente.
Il mito di Icaro e l'allontanamento di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre (inteso
come "Natura inviolata") ne rappresentano i casi più emblematici.
L'idea di una Natura concepita come limite alle aspirazioni e ai desideri umani e
quindi come costante "antagonista", ovvero come un qualcosa contro cui bisogna
battersi, segue dunque una particolare evoluzione nel pensiero occidentale trovando
una sorta di formazione di compromesso quando questa viene da Dio "affidata" alle
mani dell'uomo non solo per utilizzarla ma anche per conservarla e quindi per
riconoscerne la sacralità. Un compromesso che non ha sortito i risultati attesi, poichè
questa idea di fondamentale importanza si è nel tempo progressivamente indebolita
fino a venire sostanzialmente soppressa.
Oggi, dunque, l'oggettivazione della Natura come insieme di fatti fisici con i quali il
potere concesso dal progresso scientifico e tecnologico consente di interagire in modo
del tutto inconcepibile anche solo un secolo fa, rappresenta, sul piano concettuale e
pratico, sia il punto più alto mai raggiunto dalla evoluzione intellettuale della nostra
specie, sia il momento di maggiore separazione dalla nostra Madre comune intesa
come fonte di vita e come antico oggetto di venerazione.
Sebbene riservato solo ad una parte dell'umanità, poter volare, solcare i mari,
comunicare in tempo reale pressochè con ogni luogo del pianeta, sondare il cosmo,
godere di immumerevoli comodità e vincere o comunque contrastare efficacemente
molte malattie spostando in avanti la durata media della vita dei singoli, è oggi u
punto di arrivo consolidato al quale nessuno tra i beneficiari di questa nuova
condizione intende rinunciare.
La contemporaneità è dunque segnata, contraddistinta, da questa nuova realtà che
dimostra come l'eterno conflitto con le leggi di Natura possa essere affrontato con
mezzi adeguati, anche se non ancora conclusivi e anche se non disponibili per tutti.
L'essere riusciti a combattere e a vincere alcune importanti battaglie di questo
costante confronto, ha ingenerato nell'essere umano una eccezionale fiducia in sè
stesso, uno stato di vera e propria esaltazione, che lascia intravedere/sognare come
ultimo e decisivo passo in avanti la prospettiva dell'immortalità (solo per chi se la
potrà permettere ovviamente), ovvero la sua potenziale trasformazione in quel Dio
non a caso fatto a sua immagine e somiglianza.
Si conferma pertanto come in questa nuova condizione, sia la Natura, sia Dio, o se si
vuole la Natura/Dio, risultano sempre più marginalizzati e tendono ad uscire a grandi
passi dalla sfera concettuale dell'umanità organizzata secondo il nuovo modello che si
è affermato, per regredire a qualcosa di non particolarmente rilevante.
L'essere umano, nella versione in cui trionfa l'io strettamente personale, ha dunque
vendicato la cacciata dall'Eden e ora ne dispone come vuole.
E' chiaro che si tratta di un equivoco. O se si vuole di una bestemmia.
Per una lunga serie di ragioni, non c'è e non può esserci alcun tipo di dominio
totalizzante da parte della nostra specie nei confronti della Natura ma questa, oggi,
appare la sensazione diffusa, la fantasticheria condivisa.
Questa idea che ci rende tanto entusiasti e anche tanto aggressivi, è in realtà un
perfetto esempio di "delirio di omnipotenza", una patologia descritta in psicoanalisi,
una sofferenza mentale di cui siamo gravemente affetti ma di cui non ci rendiamo
conto.
Ma come è stato possibile arrivare a convincersi che i pur concreti vantaggi della
modernità possano sostituire de facto e su larga scala le leggi naturali, ovvero
quell'articolatissimo sistema fisico - chimico - biologico ed ecologico che consente la
vita su questo pianeta?
L'emergere di questa convinzione si può imputare alla scienza in quanto tale oppure
l'origine va cercata più in generale nella tradizione culturale che ha prevalso in
occidente?
Secondo Guido Dalla Casa, per rispondere a questa domanda è utile guardare al mito
delle origini esposto nella Genesi dell'Antico Testamento, in cui un Dio creatore
esterno alla Natura e che anzi crea la Natura stessa, pone il suo popolo a fondamento
del rapporto di sopraffazione verso gli altri esseri viventi, in cui la presenza del ciclo
settimanale determina la divisione netta fra dovere-lavoro e riposo-divertimento e in
cui l'ordine dello sviluppo e dell'espansione conferma la centralità della figura umana
nel mondo.
-Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li
creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la
terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul
bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”.- (Genesi, 26-28)
Una lettura in cui non sfugge come la stessa evoluzione della scienza e la produzione
di mezzi tecnici sempre più potenti, in quanto prodotti dall'uomo, appaiono coerenti
con il progetto di dominazione che Dio mette nelle mani della sua specie prediletta,
giustificando la grandiosa mole di sofferenza causata alle altre specie animali in un
contesto di costante aggressione e distruzione dell'ambiente naturale.
Nel 1864, riferendosi alla colonizzazione europea che aveva trasformato il paesaggio
americano convertendolo in una terra di insediamenti agricoli, Henry David Thoreau
scrisse: “Quando penso che qui gli animali più nobili sono stati sterminati: il puma,
la pantera, la lince, il ghiottone, il lupo, l’orso, l’alce, il cervo, il castoro, il tacchino
e altri ancora, non posso che sentirmi come se vivessi in un paese addomesticato ed
evirato rispetto al suo stato originario”.
Chissà, come il grande naturalista e filosofo descriverebbe oggi la mostruosa perdita
di biodiversità che stà determinando la sesta estinzione di massa e la monumentale
quotidiana mattanza che viene perpetrata negli allevamenti industriali per l'appunto
definiti "moderni".
----
Mantenendo una prospettiva storica, si può dunque affermare che attraverso una
"forzatura culturale", sia stato questo sottofondo antropocentrico poi rafforzato dallo
scientismo originato dal determinismo positivistico a creare i presupposti della
malattia di cui stò parlando.
Oggi, la distanza tra le aspettative del modello di vita che possiamo chiamare
"dissipativo, eterotrofo e tendenzialmente abiotico" e la costante ricerca di equilibrio
tipica delle dinamiche naturali, non è mai stata tanto grande.
Nelle case dotate di ogni comfort, nei luoghi di lavoro, nelle città e più in genere nei
luoghi urbanizzati, la Natura compare in tracce e quando è presente lo fa nelle
modalità da noi disposte: il parco cittadino, le alberature stradali, il bonsai in salotto,
il vaso di fiori sul balcone. Ogni manifestazione di Natura che esula da quella
ammaestrata e monocorde che abbiamo concepito per i nostri spazi di vita non è
contemplata nè accettata.
La zanzara o la mosca che ci infastidiscono durante i periodi caldi (sempre più lunghi
e sempre più caldi), la pianta dell'orto che non produce come ci aspettavamo, perfino
il cinguettio degli uccelli che ci sveglia troppo presto durante una domenica mattina
di primavera, costituiscono una deviazione da quanto desideriamo, da come ci
immaginiamo debba essere il mondo naturale posto al nostro servizio.
Figuriamoci se la pioggia guasta il nostro week end o se il vento abbatte qualche
albero bloccando il traffico.
La lontananza dai fatti e dai cicli naturali ha preso piede anche nelle campagne
industrializzate, distraendo i nuovi agricoltori/operai dalla consapevolezza antica che
sapeva riconoscere nell'imprevedibilità e nella mutabilità del tempo atmosferico e
nella alternante risposta dei terreni, caratteristiche non eludibili di una Natura
comunque Madre, alla quale, in epoca pre-moderna e ancora oggi presso alcune
culture residuali, si facevano offerte, si chiedeva tolleranza e si portava rispetto.
La intrinseca tristezza (e la follia) di questo nuovo rapporto, emerge in qualche modo
quando ci diciamo che però la Natura è bella e che dobbiamo frequentarla.

E' questa la Natura dei Parchi naturali, delle aree "protette", delle gradevoli
passeggiate nei boschi, dei tuffi nelle acque cristalline, del bel panorama che ci porta
ad ammirare la solennità di una foresta, la maestosità di una montagna o la grandezza
del mare.
Ma la nostra attenzione ed il nostro uso finisce lì: in un tempo breve e superficiale.
Chi fra di noi è disposto ad immergersi nelle "terre selvagge", nella wilderness dove
l'essere umano privato delle sue dotazioni tecnologiche è posto di nuovo nella sua
condizione originaria ? Chi è disposto a vivere in modo parco, essenziale, nutrendosi
alla fonte di saggezza millenaria che sgorga dal contatto con gli elementi naturali ?
Se escludiamo una parte assolutamente minoritaria di individui che per scelta
risiedono in spazi autenticamente naturali e li vivono intensamante come parte
inscindibile del loro essere, tutto il resto dell'umanità, seppure a vari livelli, si è ormai
trincerato dietro le mura offerte dalla cittadella di una modernità che guarda solo a sè
stessa e che sganciata dai limiti che per millenni hanno costretto a poca cosa le azioni
umane, ora si guarda allo specchio e si compiace.
Del resto, almeno nei paesi della cosidetta economia sviluppata, questo è il tempo in
cui diamo tutto per scontato come l'abbondanza di energia che utilizziamo o del cibo
che mangiamo, facendo finta di non sapere che questo stile di vita ha pesantemente
intaccato il capitale naturale del pianeta, ha manomesso i servizi ecosistemici e che
ciò di cui la parte ricca del mondo dispone oggi non sarà per niente garantita in un
futuro molto prossimo.
Sia chiaro, non mi riferisco genericamente all'umanità in quanto tale e non è certo
mia intenzione mettere in comune lo speculatore di una multinazionale con un
contadino di una regione povera che vive esclusivamente del suo lavoro in risaia: è
fin troppo evidente che l'impronta ecologica e sociale del primo è straordinariamente
più grande e più pesante di quella del secondo e che ciò chiama in causa la
dimensione politica del problema.
---
Leggendo queste righe, immagino che qualche lettore intenda muovere qualche dura
critica rispetto a quanto ho appena scritto.
Vorrei anticiparlo, se mi è concesso, precisando che anch'io sono uomo del mio
tempo e che ovviamente non vivo in una grotta isolato dal mondo cibandomi di
radici, salvo uscire di tanto in tanto per scrivere utilizzando un computer.
Non sto dunque esaltando la vita primitiva nè vi propongo come Rousseau
l'adorazione del mito del buon selvaggio, sebbene la tentazione esista.
Sto solo interrogandomi per proporre una riflessione su come questo atteggiamento
umano si stia dimostrando deleterio e sia causa di una crisi senza precedenti che si
presenta come crisi ecologica ma anche come crisi economica, sociale, intellettuale e
morale.
Personalmente ritengo che sia proprio questo progressivo allontanamento dal sentirci
parte di un tutto che si manifesta nelle leggi e nei fatti naturali, l'origine dei guai che
abbiamo provocato.
Del resto, se la contemporaneità offerta dal modello occidentale tutta centrata su un
percepire individualistico totalmente intriso di materialismo fa proseliti anche presso
culture e modelli di società molto diversi, una ragione c'è.
E qui torniamo alla generalizzazione da cui muove il mio ragionamento, ovvero
all'esistenza, per così dire intrinseca alla nostra specie, di una sempiterna lotta contro
i limiti imposti dal mondo naturale rappresentati dalla primordiale necessità di
reperire il cibo, difendersi dalle intemperie, trovare modi per spostarsi velocemente.
E' ancora Thoreau a ricordarci che "il rapporto tra l'essere umano e il mondo esterno
non è fondamentalmente lo stesso ad ogni latitudine ?"
Il punto è che se l'accettazione di questi limiti, tra cui la sofferenza, la malattia e la
morte, è stata in qualche modo secolarizzata e "metabolizzata" da chi ci ha preceduto
anche grazie alla visione consolatoria di una vita che non si conclude ma che
prosegue in altra forma ad esempio attraverso la reincarnazione o lo spostamento in
un regno utraterreno, oggi, l'allontanamento del sacro e da quello che simbolicamente
rappresenta da parte dell'ubriacatura edonista che ci fa credere di essere il soggetto
centrale delle dinamiche del mondo, spinge fortemente affinchè questi limiti non
siano più accettati.

Per giungere al punto in cui siamo, l'alienazione delle promesse o delle verità,
espresse dal multiforme approccio spirituale che ha dato senso all'esistenza umana, ha
giocato un ruolo fondamentale.
La grande differenza tra noi, occidentali e occidentalizzati del XXI secolo rispetto ai
nostri simili vissuti anche solo un paio di secoli fa, stà infatti nel sentirsi per la prima
volta sostanzialmente indipendenti da un qualsiasi riferimento o supporto esterno,
padroni del nostro presente e del nostro futuro, detentori di un'idea di libero arbitrio
portato all'eccesso che in termini pratici ha permesso di travalicare ciò che ci è
effettivamente consentito su un pianeta limitato, su questa Terra che fino a prova
contraria resta la nostra unica casa comune.
Nel profilo psicologico di chi soffre di delirio di omnipotenza, che questo approccio
sia determinato da una credenza, da una aspirazione o da un sogno fa poca differenza:
a rafforzare la patologia ci pensa la spinta della forzatura culturale oggi sostenuta
dalle potentissime e subdole armi dei media che costantemente lavorano per farci
sentire in questo modo, che operano per convincerci e renderci protagonisti di questa
assurda velleità in cui tutto è possibile e in cui tutto è consentito.
Mediamente, l'essere umano contemporaneo modellato a misura di homo consumens,
autocentrato e autoreferente, lontano dalla Natura e dalla sua sacralità, non si
interroga realmente o peggio non si interroga più, nè sulla distruzione delle basi
ecologiche della vita, nè sulle enormi violenze che portano il nome di guerra, povertà
e fame, spinte ad un livello di intensità mai visto prima.
Il punto è, come scrive Fritjof Capra, che "l'uomo moderno è consapevole di sé
stesso, nella maggior parte dei casi, come un -io- isolato che vive all'interno del
proprio corpo". E' un soggetto, scrivo io, che alla fine si è posto da solo in un angolo,
adottando una sola prospettiva, vegetando dentro le sue assurde convinzioni.
In questo nuovo universo non c'è spazio per chi non condivide, o peggio si oppone,
alle regole che sono state definite: i romantici vagheggiamenti di una natura vitale e
misteriosa appartengono ai nostalgici, agli antimoderni, ai superati e se non vi sono
più idoli a cui prostrarsi per ringraziare di una buona pioggia o di un raccolto
generoso, tutto ciò che c'è da sapere è per l'appunto contenuto nel riduzionismo
scientifico, nell'efficacia della tecnica, nell'indagine della materia.
Non voglio essere frainteso e vi prego di non fermarvi ad una sbrigativa lettura di
quanto stò sostenendo, poiché non è mia intenzione reclamare l'improbabile fascino
del buon tempo andato in cui talune credenze irrazionali contribuivano a mantenere
ignoranti e timorosi gli esseri umani, ma è piuttosto evidente che il nostro
comportamento attuale rappresenta qualcosa di assai più grottesco e pericoloso.
Il punto è che non accettiamo il fatto che la Natura non è pro homines né adversus
homines, ovvero che essa non è nè benigna, nè maligna, e che è totalmente
indifferente al nostro destino: una realtà che “offende” il nostro orgoglio ingigantito
dalla modernità, posizionandoci in una condizione di vulnerabilità in cui è la stessa
“meravigliosa e progressiva“ sorte dell'umanità ad essere posta in discussione.
La nostra attuale inconsapevolezza riguardo agli eventi e ai cicli naturali, ovvero -il
non sapere- che cosa c'è la fuori, è frutto della perdita di informazione che fino a non
molto tempo fa ci arrivava dalle culture ataviche e da quelle contadine tradizionali,
dalle nostre stesse modalità di vita e dalla chiara percezione dei limiti a cui siamo
soggetti in quanto esseri umani: una sperimentazione diretta che non può essere certo
supplita da un documentario o da uno studio teorico, per quanto ricchi di nozioni e di
esiti forniti dalla ricerca. La verità è che la teoria resta tale, insufficiente per un
approccio concreto alla lettura della vita, se non si affondano le mani nella terra, se
non ci si confronta con i successi e con le sconfitte di un'esistenza vissuta in prima
persona a contatto con quanto la Natura offre, nel bene e nel male.
La distanza che abbiamo messo tra noi e la Natura e ciò che la rappresenta sia come
elemento di incognita sia come contenitore della nostra esistenza, è frutto del nostro
desiderio inconscio di affrancarci definitivamente dalle paure che filogeneticamente
ci hanno condizionato, dal timore con cui abbiamo affrontato il folto di un bosco,
dall'incontro con un grande predatore, dagli estremi climatici, insomma dalla
precarietà della nostra stessa condizione umana.
---
Ma se abbiamo il coraggio di fermarci e di guardarci dentro, scopriremo che stiamo
vivendo una terribile illusione, apparentemente comoda, ma pur sempre un'illusione.
La stessa scienza, con le tesi e le evidenze della nuova fisica, ci dice che il mondo in
cui agiamo è pura apparenza e che ogni oggetto non è effettivamente separato
dall'altro ma immerso in un tutto connesso e comunicante: figuriamoci dunque quale
grado di realtà può avere l'idea del posto che ci siamo dati nel mondo.
Il tema, in ambito scientifico-filosofico, è quello degli esiti a cui si è giunti
percorrendo la concezione del mondo determinata dal meccanicismo cartesiano.
Diversamente da questa impostazione, la visione del mondo che emerge dalle più
recenti teorie scientifiche può essere definita come organica, olistica ed ecologica,
oppure sistemica, nel senso della teoria generale dei sistemi.
Come ci ricorda Capra: “L'universo non è più visto come una macchina composta da
una moltitudine di oggetti ma viene raffigurato come un tutto indivisibile, dinamico,
le cui parti sono interconnesse e possono essere intese solo come strutture di un
processo cosmico. Da ciò emerge un nuovo paradigma in cui il rapporto tra le parti
ed il tutto è invertito e in cui le proprietà delle parti possono essere comprese solo
alla luce della dinamica dell'intero. In definitiva, le parti non esistono poiché ciò che
chiamiamo parte è solo una configurazione in una rete inseparabile di relazioni”.
Questo universo vibrante che non possiamo vedere con i sensi di cui disponiamo e
che è fatto di oscurità e di correlazione tra le componenti della materia che in un
alternarsi di densità maggiore o minore percepiamo come pieno, come vuoto o come
nulla, spazza via ogni nostra illusoria certezza e la presunzione sulla supposta
centralità della nostra specie rispetto al mondo vivente.
In conclusione, noi siamo solo parte del tutto, non siamo il tutto.
Si tratta di una verità profonda, in altro modo già presente nelle culture ancestrali e
che per l'appunto si manifesta con la concezione dell'unità di ogni cosa.
Ad esempio, il tratto distintivo della cultura Lakota è il pensiero che gli alberi, gli
animali, il fiume, siano tutte cose che hanno un'anima, che sono soggetti tra loro
connessi e dotati di propria spiritualità densa di significato.

Non di meno molte altre tradizioni si sono fondate su una simile concezione e
hanno enfatizzato il ruolo del divenire naturale delle cose ridimensionando la figura
umana e le sue aspettative.
I concetti di non attaccamento, di moderazione o di rinuncia al desiderio, di servizo
verso gli altri ma libero dall'attesa dei risultati, costuiscono ad esempio la matrice
delle sacre scritture Induiste che hanno come comune denominatore la pratica dello
Swasta (l'armonia intesa come realizzazione del sè) e il raggiungimento di Moksa (la
liberazione dal ciclo della vita e della morte), in un quadro in cui la vita del singolo
ha un valore circoscritto.
Se pur calata in un contesto molto diverso e confinata nei precetti cattolici, una
visione che pone l'essere umano in un quadro di contemplazione della Natura e di
solidale convivenza con il prossimo, è stata condivisa dagli insegnamenti e dalle
pratiche francescane mediante le quali si è rinnovata la porzione più elevata del
messaggio evangelico.
Una Weltanschauung (ben più diffusa di quanto normalmente si pensi) che se pur con
modalità e sfaccettature diverse, una parte della scienza, della letteratura e della
filosofia occidentale, sia in ambito religioso che laico, ha indagato a fondo grazie al
contributo di pensatori del calibro di Giordano Bruno, Baruch Spinoza, Arthur
Schopenhauer, John Ruskin, Lev Tolstoj, Bertrand Russel, Konrad Lorenz, dello
stesso H.D. Thoreau, per citarne solo alcuni.
Questa idea dell'unità del tutto, arcaica e attuale al tempo stesso, questa immagine di
un flusso che la mente è in grado di visualizzare e che crea corrispondenze tra la
materia e quanto sottende al concetto stesso di materia, ci permette di vedere la dove
non stiamo guardando, verso la realtà ultima delle cose, verso l'intimità del nostro
essere per avvicinarci alla comprensione, o almeno alla intuizione, che effettivamente
tutto è legato e che ogni nostra azione è possibile in quanto qualcuno o qualcosa la
resa tale.
L'io, dunque, quell'io gigante a cui facciamo costante riferimento e che abbiamo
piazzato il più in alto possibile, in questa prospettiva viene assolutamente
ridimensionato, o più correttamente si può dire che si fa da parte.
E' in questo modo che l'aggressione alla Natura che in definitiva è anche aggressione
a noi stessi, può trovare soluzione.
Duemilacinquecento anni fa, un indiano chiamato poi "il risvegliato", descrisse
l'interdipendenza di tutti i fenomeni vedendone la "vacuità", ovvero come tutte le
cose sono vuote di un sè separato e isolato. Una interdipendenza a cui si aggiunge
l'impermanenza di tutto ciò che si manifesta ai nostri occhi.
"Se un chicco di riso non avesse la natura dell'impermanenza e del non sè, non
potrebbe trasformarsi in una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sè e
impermanenti non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e
priva di un sè, un bambino non potrebbe diventare un adulto" .
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Osservando in questo modo le cose del mondo, si comprende come è solo la rete di
relazioni tra gli oggetti che ne definisce la loro esistenza.
La separazione tra di essi e quindi anche quella tra il sè e tutto il resto, in ultima
analisi non sarebbe altro che un pregiudizio ontologico, una falsa distinzione operata
dall'intelletto.
Nei secoli passati non c'era la fisica quantistica a porre distinzioni tra cosa
percepiamo e cosa è invece la realtà dei fenomeni ma fu l'affinamento del pensiero e
lo stato meditativo dei praticanti a spingersi in quella direzione.
La perdita di percezione e di riflessione sul nostro reale stato, su quello che in effetti
siamo, si configura come un male interiore che si è radicato nelle nostre viscere e che
si esplicita esibendo insipienza e indifferenza, ricorso alla violenza, assenza di
compassione.
Ponendo la nostra attenzione unicamente sul soddisfacimento materiale e psicologico
dei nostri desideri, soprattutto di quelli indotti, e rinunciando a qualsiasi ricerca di
conoscenza e di condizione altra, si finisce con il disconoscere le potenzialità del
nostro essere più intimo, del nostro possibile cammino interiore, della nostra
coscienza, inibendo la nostra ricerca di equilibrio e felicità .
La malattia del -non pensiero- contemporaneo conduce così a vari tipi di sofferenza,
considerata l'impossibilità pratica di soddisfare un io divenuto sempre più feroce ed
insaziabile. E' l'istinto di morte, per usare una espressione freudiana, che si fa largo e
ci consuma e in questo modo consuma il nostro rapporto con il mondo naturale.
Se, come ha insegnato Siddharta Gautama, la sofferenza trova origine
nell'attaccamento, nella rabbia e nell'ignoranza (intesa come base di tutte le afflizioni
mentali), la distanza che abbiamo messo tra noi e la Natura è dunque la misura di
questa condizione.
Sinceramente non so se, come comunità umana, saremo in grado di abbandonare la
via che abbiamo intrapreso. Il progressivo affermarsi del modello univoco di
comportamento globale ci dice che così non è, almeno per il momento.
Troppo forte la tentazione di stare al centro di tutto, o almeno di pensarlo.
Troppo invadente la suggestione di poter fare a meno di ciò che è alla base della
nostra esistenza: la dipendenza fisica, ovvero il limite che ci è imposto dai processi
naturali. Ma se tutto è effettivamente impermanente anche questa situazione è
destinata a mutare. La domanda è come e quando.
I movimenti di pensiero e di azione che trovano fondamento nella ricollocazione
della nostra specie nel contesto naturale come "parte del tutto", sia pure in una
versione che non intende nè ripudiare, nè rinunciare almeno a parte delle utilità che il
progresso ci ha consegnato, al momento rappresentano una quota insignificante della
"massa umana". Vivere in modo frugale e condiviso nel rispetto degli equilibri
naturali, si pone infatti all'opposto di quanto viene generalmente pubblicizzato
affinchè ci si possa dire effettivamente moderni.
E' pur vero che più passa il tempo e più si manifestano con durezza gli effetti
sgradevoli del modello dominante, più un numero sempre maggiore di persone si
interroga rispetto a quello che stà avvenendo, a partire dalla propria mancata
soddisfazione rispetto a quanto è stato promesso dai proclami materialistici.
Ma, in realtà, nessuno può indicare con una certa dose di sicurezza che cosa potrà
avvenire e se questa maggiore consapevolezza sarà in grado di ricondurci sulla retta
via di un comportamento non distruttivo.
Certo è che se non si ricuce lo strappo, se non si accetta il fatto che noi non siamo
separati dalla Natura e che è indispensabile accettarne i limiti, l'io individualistico che
superando ogni confine geografico e culturale oggi si esprime con tanta irruenza, è
destinato a deflagare definitivamente riducendo in pezzi l'ambiente che ci ospita e la
nostra stessa specie.
Comprendere l'illusorietà del nostro sè e del mondo artificiale che abbiamo creato per
ricollocarsi nella giusta posizione all'interno del fluire naturale è la scelta migliore
che ciascuno di noi può fare.
Occorre pertanto porsi in una posizione di non contrasto, di non dualità.
Una visione unitaria invece che frammentata, una pratica amorevole invece che
prevaricatrice, una percezione stabile piuttosto che disarmonica, sono segmenti di un
percorso da ricostruire, a livello personale e come condotta sociale.
Non abbiamo molto tempo per cambiare strada. Proviamo a farlo.
Riferimenti:
Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, Gli Adelphi 1989
Guido Dalla Casa, L'Ecologia profonda, Mimesis 2011
H.D. Thoreau, Walden, BUR 1990.
Thich Nhat Hanh, Vita di Siddharta il Buddha, Ubaldini 1992